Come si può reputare una forma d’amore così sbagliata da giudicarla una malattia?
Come può l’amore stesso essere condannato, in alcuni paesi addirittura con la pena di morte?
Così è stato (purtroppo lo è ancora in alcune parti del mondo) fino a 32 anni fa: chi amava una persona del suo stesso sesso veniva considerato mentalmente deviato, un perverso, una persona sbagliata e legalmente perseguibile.
Finalmente, il 17 maggio del 1990 l’Organizzazione Mondiale della Sanità rimuoveva l’omosessualità dal manuale diagnostico delle malattie mentali (DSM), legittimando quello che oggi per molti di noi, ma non ancora tutti, è un dato di fatto: l’orientamento sessuale è parte dell’identità di ciascun individuo.
Ma riconoscere che c’è assenza di patologia non cambia lo status quo delle cose e 32 anni sono un tempo microscopico, rispetto ai secoli di caccia alle streghe. Senza considerare che la cultura che ci circonda, i modi di dire, i film che tanto ci hanno fatto ridere, gli automatismi linguistici che usiamo quotidianamente sono così impregnati di stereotipi e pregiudizi che tutti noi, volendo o no, abbiamo perpetuato determinati modi di pensare di generazione in generazione, alimentando una communis opinio sempre più anacronistica anche tra i più giovani.
Affermare ufficialmente che l’omosessualità, la bisessualità e la transfobia non sono malattie mentali non basta per far sparire quella fobia, che oggi più che mai vorremmo azzerare: l’omofobia.
Che cos’è omofobia, cosa significa?
Partiamo dalle parole perché cogliendone il senso più profondo, riusciremo ad usarle consapevolmente: il termine omofobia è composto da omo(sessuale) e fobia e significa “avversione ossessiva per gli omosessuali” (Treccani).
Perché si parla di paura? Perché si ha paura di ciò che non conosciamo.
Quando non conosciamo qualcosa, di solito accade perché non ne abbiamo esperienza diretta, non abbiamo avuto l’occasione di poterci avvicinare, parlare ed empatizzare con quel tipo di situazione. E quando non possiamo conoscere qualcosa, cerchiamo le risposte altrove, magari da chi quella certa cosa pensa di conoscerla. È qui che subentrano gli stereotipi e nascono i pregiudizi: la mente umana cerca delle risposte perché ha bisogno di controllare ciò che gli sfugge e lo stereotipo compie perfettamente questa missione, poiché fornisce in poche etichette un modello preconfezionato, con la controindicazione di sospendere il nostro giudizio critico. Laddove un gruppo di persone inizia a pensare allo stesso modo e a condividere la medesima opinione, si sente legittimato e di conseguenza più forte.
Ma più forte di chi? Delle minoranze, cioè gruppi di persone meno numerosi di altri.
Il concetto di minoranza però è strettamente legato all’ambiente ed è un dato assai relativo: in Irlanda, ad esempio, ci sono molte persone con i capelli rossi mentre in Italia accade esattamente il contrario. È per questa ragione che, più che di minoranza, si dovrebbe parlare di diversità. Nella storia è spesso accaduto che alcune minoranze siano state isolate e perseguitate, ma in realtà non avevano alcuna colpa, se non quella di essere così come erano. Diverse, appunto, dalla maggioranza.
La comunità LGBT costituisce una di queste minoranze e ancora oggi viene perseguitata, emarginata, derisa e punita, in alcune parti del mondo, con la pena di morte. È per questo che ancora oggi molti si nascondono, altri reprimono la propria natura perché si sentono in pericolo, hanno paura di non essere accettati, che il mondo possa cercare di correggerli o peggio di curarli come se avessero una malattia, così come si faceva fino al 1990.
Eppure non ci sogneremmo mai di fare altrettanto con un ragazzo dai capelli rossi perché con quei capelli ci è nato. E così come si nasce con i capelli rossi, può accadere di nascere nel corpo di uomo e sentirsi donna, di sentire attrazione verso persone dello stesso sesso ma questa forma diversa di essere e di amare non ha nulla di patologico, né definisce la persona in quanto pars pro toto. Il modo di amare è parte della nostra identità ma siamo molte, moltissime altre cose!
In fondo si tratta solo di andare oltre le etichette e gli stereotipi e di vederci l’un l’altro per quelli che siamo. Si tratta di provare sinceramente a mettersi nei panni altrui, senza giudizio e senza paura. Nei panni di chi ha gli occhiali, di chi ha i capelli rossi, di chi ha la pelle scura o gli occhi a mandorla, di chi non riesce a pronunciare la -r o la -s, di chi ha un corpo più curvo o di chi curve non ne ha. E anche nei panni di chi è nato uomo e si sente attratto da un altro uomo. Ci accorgeremmo immediatamente che non esiste una minoranza e che in un gruppo di persone siamo tutti molto diversi. Ognuno è semplicemente come è, con il suo colore di pelle, con o senza occhiali, con il suo modo di parlare e il suo modo di amare.
C’è ancora molto da fare per cambiare le cose, oltre a modificare il manuale dei disturbi mentali, la strada per annullare l’omofobia è ancora lunga. I cambiamenti più importanti non arrivano solo da fuori, perché qualcuno lo ha deciso e scritto da qualche parte. Il cambiamento parte dentro di noi, quando decidiamo di farlo.
Inizia quando cambiamo il nostro sguardo e il nostro linguaggio.
Inizia quando vediamo le cose per quelle che sono e le chiamiamo per nome.
Quando invece di parole dispregiative come ricchione, frocio/a, finocchio usiamo omosessuale, gay, lesbica.
Quando invece di respingere una realtà che ancora non conosciamo, ci avviciniamo per chiederle come si chiama, quanti anni ha e se ha qualche sogno nel cassetto.
Perché l’amore è amore.
E perché d’amore no, non si può morire.